Il mio libro preferito si intitola “Le onde”. L’ha scritto una mia amica carissima, Virginia, con cui ho diviso ogni mio pensiero dalla giovinezza e, son sicura, mi seppellirà.
Lei ne era affascinata dalle onde, da bambina aveva una casa vicino al mare e le osservava giorno e notte. Il loro ritmo la ossessionava, veniva da chissà dove, e cambiava, erano rapide, grandi, impercettibili, ogni volta non poteva, nè avremmo potuto noi, calcolare la loro intenzione.
Tra tante cose stabili come la terra e l’erba che vi cresceva sopra, la stufa a legna, i vasi pieni di fiori, i divani dove si sedeva con i fratelli, lo specchio in bagno che non guardava mai, insomma, tutto stava fermo e lei ci viveva in mezzo. Eppure le stesse onde che facevano beccheggiare la barchetta con cui andavano al faro di fronte alla costa, lei le sentiva sotto i suoi piedi, anzi la percorrevano tutta.
Quando era ragazza, c’era un tipo strano con i baffi poi diventato molto famoso, che faceva lo scienziato. Insisteva a dire che esistevano delle onde che non erano del mare, ma nemmeno sonore e nemmeno elettriche. E che spostavano, senza che ce ne accorgessimo il tempo e lo spazio. La mia amica pensava che forse aveva visto giusto, anche se l’orologio batteva i secondi e la cucina non rimpiccioliva o si dilatava.
Non era l’impressione di aspettare troppo un treno o di stupirsi che un sottomarino fosse minuscolo. Non erano impressioni degli stati d’animo, per lui era una certezza. Le aveva chiamate onde gravitazionali, definizione tra l’altro bellissima. La mia amica, che non era proprio stabile e che soffriva di alti e bassi, dentro e fuori nella sua vita, trovava questa teoria molto consona alla sua indole.
Eppure l’idea del sig. Einstein, ebreo come suo marito, a lei sembrava di viverla sulla pelle. Si era sempre chiesta, guardando il cielo di notte, se non avesse ragione a dire che se succede un incidente lassù, con tutte quelle stelle e corpi celesti che si formano e collassano, noi potremmo sentirlo. E allora le undici sarebbero potute diventare le due, e la baia di St. Ives ingigantire il suo abbraccio. Alla mia amica, diverse volte, era capitato di percepire tutto diverso, di cogliere un’incertezza suprema, il fievole respiro di un infinito, un rombo lontano.
Adesso capisco perché in quel libro di cui parlavo prima, proprio alla fine c’era la frase: “anche in me l’onda si leva”. Forse la mia cara amica aveva preso ispirazione da lui, dal Sig. Einstein, lo scienziato ebreo un po’ fuori dal mondo, proprio come lei, Virginia. E adesso sappiamo che sulle onde avevano entrambi ragione.