Erano gli anni ’50-60 e mia mamma aveva una sfilza di amiche che si chiamavano Concetta, come è uso da noi. Bisognava trascorrere il pomeriggio andando a trovarle. Le porte delle case erano socchiuse e le visite si susseguivano nel pomeriggio, sfinendo la padrona di casa. Pioveva sempre. Le mie gambe coperte dai calzettoni che scivolavano sulle gambette doloranti, un basco di velluto, le labbra screpolate. E la noia. Grande. Ci tenevamo per mano: lei, mamma, col collo di pelliccia e guanti di pelle rossa. Si faceva sera prestissimo e i palazzi si scurivano sotto la pioggia. Il mio silenzio, ferma seduta sui divani di velluto, il caldo delle stanze, un cioccolatino che si scioglieva sul palmo. I baci sulle guance, i profumi intensi, il chiacchierio e il tempo lunghissimo. Mai avrei detto di no. Tornavamo a casa bagnate, arrossate. Le sere siciliane erano queste.
Oppure certe visite che facevamo nei pomeriggi di luglio. In villini di campagna col mare in fondo. Era il tramonto e le mucche tornavano dal pascolo. I cani abbaiavano forte. Un cielo chiaro. Ci offrivano il “bianco mangiare” di mandorle, adagiato su foglie di limone. Era buono e insapore al tempo stesso. Lo facevano ogni pomeriggio. Le signore avevano al petto ampio spille con fili di gelsomino intrecciato. Il fieno nei covoni e il silenzio. Veniva una gran fame. Si faceva sera molto piano. Con stelle lontane e luminose. E i profumi salivano sui terrazzi antichi. Le tende si muovevano alla brezza che veniva dal mare distante. Parlavamo a bassa voce, nel dialetto siciliano. Poi si accendevano le luci nelle stanze. E tornavamo a casa.