Vivere in America

Li ho chiamati “i giorni della valigia”. I miei ultimi in Italia, prima di diventare un’emigrante. Ho sempre odiato i muri. Sono pigra e odio scavalcare, ma conosco la disperazione e so, che per sopravvivere, si scavalca qualsiasi muro.
Ero a casa dei miei. Avevo lasciato il mio appartamento e mancavano poche settimane alla partenza. All’addio. La mia valigia blu era ai piedi del letto di mia madre e si riempiva un po’ alla volta. Mio padre, passandoci di fianco, ripiegava lo sguardo in una ferita e taceva.
I giorni della valigia divennero ansia e lacrime. Per una settimana, sbarcata in questa terra straniera, piansi seduta sul davanzale di una finestra del Queens. Mi salvarono Barack Obama, mia zia Elena e Dorothy. E la convinzione che la vita vada onorata sempre.
Da quando e’ stato eletto Donald Trump, la politica, passione inevitabile non solo per professione ma per crescita e retaggio culturale, e’ diventata il mio pranzo e la mia cena. Vorrei provare a spiegare perché per me questa resistenza sia cosí vitale.
Ho sempre pensato che le azioni di ciascuno potessero contribuire a migliorare (o peggiorare) il mondo. Quando le “cose italiane” mi hanno costretta a mettere in dubbio questa convinzione, spingendomi sulla via di qualunquismo e populismo, sono andata via. Io l’Italia, la amo molto. E come tutti gli amori, a volte, bisogna prenderne le distanze.
Venire qui in USA e’ stata un’impresa titanica. Ho sofferto la fame. Ancora mi capita. Ho sofferto la solitudine, lo spaesamento, la perdita, la separazione, la paura. Non ero a casa e odiavo questo posto. Volevo sentire odore di friarielli nell’aria e scendere da Posillipo con la mia Vespa e portare rispetto al Vesuvio: la mia bussola, lava e solitudine, passione e pazienza. Questa, però, era la mia sfida e la terra dove avevo deciso di rinascere. E farlo, mentre Barack Obama era candidato e poi, due volte presidente, è stata un’avventura entusiasmante. Sempre.
Dopo otto anni di George W Bush, che oggi ci appare un blando democratico in confronto a Trump, Obama era la speranza, il cambiamento, la valorizzazione della parte migliore del paese. L’elenco delle cose realizzate e’ troppo lungo per ripeterlo qui ma basterebbe, per collocarlo fra i migliori dieci presidenti della storia americana, l’aver garantito l’assistenza sanitaria a quasi 30 milioni di americani. Inclusa la sottoscritta. Barack Obama, per otto anni, ha alzato il livello della diplomazia, del rispetto per le donne e per tutte le minoranze e ha affrontato, risolto e superato la più grave crisi economica dalla Grande Depressione. Che aveva polverizzato – per capirci – colossi bancari come Lehman Brothers; che – nel giorno della bancarotta – aveva beni per oltre 639 miliardi di dollari. 639 miliardi! E 619 miliardi di dollari di debiti. Che stava cancellando la storia dell’industria automobilistica americana che oggi, grazie al salvataggio voluto dal presidente contro tutti, fa segnare dati di crescita costante.
Ora, Donald Trump sta facendo a pezzi gli USA e cancellando tutto ciò in cui credo e che mi ha fatto sentire fiera della mia nuova casa. Mi ha spinto a voler chiamare questo paese “casa”. I suoi attacchi violenti e pieni di odio contro le minoranze, sostenuti da ragioni religiose e etniche, sono la negazione di quanto sancito dalla Costituzione e, dunque, dai Padri Fondatori. Il suo smantellamento della riforma sanitaria, l’attacco contro i diritti umani (LGBT, donne, disabili), la distruzione dell’ambiente, sono solo alcune delle cose che Trump ha messo in atto, pericolosissime per il futuro degli Stati Uniti e del mondo in generale. Io, dunque, non discuto di politica, io difendo casa mia. E poco importa che qualcuno, dall’alto del suo cinismo, e del suo essere qui di passaggio a seguito di mogli o mariti o di aziende, mi ricordi che io non sono “cittadina”. Io lo sono.
Un figlio adottato si sente figlio anche se non partorito. Io mi sento figlia anche se non partorita da questa terra.
Questa e’ casa mia. Perché qui sono felice, per quello che possa significare la parola felicita’. E lo sono, incredibilmente, anche ora, anche in questa resistenza. Perché sono “parte”. E non c’è nulla che un emigrante, un pezzo di carne da macello come spesso siamo, desideri di più: essere parte.

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