Essere nati il 29 febbraio non è un caso – una data tanto evanescente deve esser per forza garanzia di una vita ricca di magia. E coì fu per Gioacchino Antonio Rossini.
E potrebbe, quindi, essere vera, almeno per oggi, 29 febbraio, la biografia fantastica che, al pari di una leggenda metropolitana, da qualche anno circola nel vociferare dei musicisti “colti”.
Vienna 1791, Wolfgang è stremato da un dicembre rigido, i debiti si accumulano e non sa come farvi fronte; la sua Zauberflöte non ha avuto successo. Decide di compiere l’atto estremo. Con una scusa obbliga la moglie a recarsi a Baden-Baden mentre egli, grazie all’aiuto di pochi fidati amici massoni, inscena la propria morte. Non era difficile trovare un cadavere a quel tempo e, stante la nota indigenza, venne ben giustificata la sepoltura nel Graben dei meno abbienti. Risultato: la moglie lo crede morto e i creditori pure; perfetto: di Mozart scompariranno anche le ossa! A questo punto raccoglie gli ultimi risparmi e abbandona la città. Ma dove nascondersi? In Italia! Il paese che più lo aveva apprezzato. Amava l’Italia e ne parlava bene la lingua; era il paese del bel canto, dell’Opera, insomma, la scelta più logica per un musicista. Rimaneva da individuare la città.
Bologna! Dove, anni prima, era stato accolto tra i membri dell’Accademia Filarmonica; dove l’amico conte Pallavicini gli avrebbe offerto accoglienza e protezione. Una vita nuova, un’altra identità e un lavoro “segreto” nelle stanze dell’Accademia Filarmonica.
Fu così che Wolfgang incontrò il piccolo Gioacchino. Nei corridoi dell’austera istituzione vide giocare un bambino allegro, dalla voce meravigliosa, destinato alla carriera di cantante. Gli ricordava la sua stessa infanzia: l’analogia con il padre musicista, la precocità delle abilità musicali.
Decise che Rossini sarebbe divenuto il suo alter ego, il suo riscatto musicale, l’operista di successo che avrebbe potuto conquistare Paris e che, invece, le cattiverie viennesi avevano relegato a “servus” della corte. Lo accolse come suo allievo, lo educò all’amore per la musica del suo antico amico Haydn e, in cambio del salvataggio dalla castrazione a cui stava per essere sottoposto per preservarne la voce, gli fece fare un giuramento: d’ora in poi (era il 1806) avrebbe pubblicato sotto il suo nome le opere che lui stesso, Wolfgang, avrebbe scritto in incognito; il piccolo Gioacchino accettò senza pensarci.
Fu un successo. La vita del giovane Rossini scorreva piacevole sotto la guida dell’illuminato maestro. I due passarono momenti meravigliosi insieme; lo testimonia il contagio nello stile di vita da bon vivant, secondo il miglior Mozart, che condusse Rossini a indulgere verso i piaceri del cibo e l’amore per l’indiscussa venustà di certe cantanti. Nessuno si accorse dell’inganno, per anni tutto andò tranquillamente; Gioacchino, a differenza del suo ghost writer, era un ottimo amministratore e ciò garantiva a entrambi la tranquillità economica che Wolfgang, oltremodo dissoluto nelle spese, non aveva mai saputo raggiungere. Da questa serenità scaturì, nel redivivo Mozart, l’idea di dare seguito al suo “Le nozze di Figaro” con la seconda commedia della trilogia di Beaumarchais: “Il barbiere di Siviglia”. Sfidando le ire di Paisiello, che in quell’anno compose sulla stessa trama, nacque il capolavoro che tutti conosciamo. Rimaneva l’obiettivo Paris da raggiungere. Facile: con gli ingenti guadagni del Barbiere si spostarono a Parigi; scalarono il successo in un colpo solo con il “GuglielmoTell“, nel 1832, ma… accadde l’inevitabile. Mozart, che aveva ormai 76 anni, si ammalò e morì nella casa parigina di rue Voltaire. Questa volta era vero, i soliti fratelli massoni si incaricarono del funerale. Gioacchino era disperato, aveva perso una guida meravigliosa, un secondo padre. Cadde in depressione e, quello stesso anno, smise ufficialmente di comporre; il resto è storia nota.